C'è chi negozia una buona uscita quando ha già in tasca un impegno di assunzione. Comportamento corretto?
Quelli dalla liquidazione… doppia!
Post aggiornato il 25 marzo 2020
Mi è accaduto di assistere in più di un’occasione, nella mia ormai non più brevissima vita professionale, a situazioni in cui un dipendente riusciva ad ottenere, al momento delle dimissioni, una liquidazione nettamente superiore a quella alla quale la norma gli dà diritto.
Ora ti spiego come.
Affinché questa situazione si verifichi devono essere valide una o più delle seguenti condizioni:
- il dimissionario ha una posizione più o meno “instabile” nell’organizzazione. Tale instabilità può essere generata da conflitti con il capo, con persone di livello gerarchico superiore o comunque influenti;
- l’azienda sta attraversando un momento difficile e, pur di ridurre il costo del lavoro, sarebbe disponibile a lasciar andare anche persone non facilmente e immediatamente sostituibili;
- il dimissionario è persona sulle prestazioni della quale le valutazioni sono diverse: alcuni non muoverebbero un dito per trattenerla, altri invece vedono la sua uscita come una iattura;
- il dimissionario è una persona della quale tutti aspettano religiosamente le dimissioni.
Immaginiamo ora che il dipendente abbia in tasca una lettera di impegno: egli sa esattamente quando comincerà a lavorare nella nuova azienda e a quali condizioni.
E allora che cosa fa per incrementare il valore della sua liquidazione? Mette in piedi una trattativa chiedendo una somma di denaro in cambio di dimissioni immediate: senza ovviamente citare il fatto di avere un altro lavoro pronto ad accoglierlo.
È chiaro che l’operazione può filare via liscia (sempre impiegando opportune cautele…) nei casi 1, 2 e 4, mentre nel terzo dipende molto dagli equilibri di potere fra favorevoli e contrari; non è da escludere che vinca il partito del “ non possiamo lasciarlo andare” e che la trattativa si trasformi in un rilancio, cioè una proposta di aumento o promozione per trattenere la persona.
E se il rilancio non è tale da convincere l’interessato a rimanere ci sarà da gestire la situazione in cui si scoprono le carte e salta fuori il tentativo di prendere una buona uscita pur avendo in tasca una lettera di impegno.
Mamma mia, che imbarazzo…
Se torniamo invece nei casi 1, 2 e 4, quelli in cui il nostro eroe ha maggiore probabilità di riuscire nell’intento, credo che sia il dimissionario sia la persona che con lui tratta uscita dovrebbero essere consapevoli del fatto che raramente le cose restano davvero riservate.
Le voci comunque corrono (perché il dimissionario non riesce a non confidare l’eroico gesto, perché l’azienda lascia trapelare di essere riuscita a liberarsi di una persona che era da tempo un peso, o solo perché niente è più noto di ciò che deve rimanere riservato) e si può essere certi che hanno una corsia preferenziale nei corridoi che conducono alle macchinette del caffè della nuova azienda.
Insomma, come inizio di una nuova avventura professionale non si può definire dei migliori.
E che dire dell’azienda che scopre (perché prima o poi le cose si sanno, per quanto detto in precedenza…) di aver liquidato la buona uscita a una persona che aveva già una lettera di impegno in tasca?
Bah, forse qualche discussione interna è prevedibile…
Che cosa suggerire alle parti coinvolte?
Al dimissionario lascerei la piena facoltà di valutare l’opportunità di questo comportamento alla luce dei suoi valori personali e dei rischi complessivi che l’operazione comporta; rischi che, obiettivamente, non sono marginali (figuracce incluse…).
All’azienda invece raccomanderei un minimo di cautela prima di concedere una buona uscita e, soprattutto, di non avere troppa fretta di chiudere la trattativa: perché se c’è un bluff, certamente emergerà.
A me la domanda sorge spontanea: ne vale la pena?
Tu cosa ne pensi?
Trovi il post anche nel libro Palmiro e lo (s)management delle Risorse Umane – Tattiche di sopravvivenza aziendale.
Ciao Arduino, e come se non ne vale la pena… un lapidario e Machiavellico “il fine giustifica i mezzi” non pone fine ad ogni tipo di remora? A mio avviso certamente. L’importante è fare le cose e starsene zitti, poi se nella vecchia azienda le voci inizieranno a circolare, chi se ne importa? Chi ha commesso una leggerezza, cercherà di soffocare le dicerie per non essere ricordato com e “il fenomeno” che si è fatto fregare.
Comunque complimenti per il blog.
@Manuel. Grazie per il commento, divertente e spontaneo. E se la voce arriva anche nell’altra azienda? Come la gestiresti?
grazie e a presto leggerto.
Per la vecchia azienda sono d’accordo con Manuel. Trovo lecito, nel mondo del lavoro quel comportamento, pur essendo io titolare di una piccola azienda (non mi piacerebbe essere la vecchia azienda, ora sono avvisato). Per la vita nella nuova azienda la cosa si fa interessante. Credo che si aprano alcune possibilità: 1) disprezzato dalla azienda integerrima che pretende assoluta dedizione, lealtà da parte dei suoi dipendenti, ma in fondo credo che ci sia molto margine di raccontare una storia a proprio favore. 2)guardato con attenzione ma in fondo apprezzato per la scaltrezza. Con la voglia da parte dei superiori di far fruttare questa dote a favore del lavoro (senza tenere conto che uno scaltro, lo è anche in altre occasioni sfavorevoli per l’azienda). E credo che ci siano anche altri scenari, molto dipende da quali valori il superiore crede di incarnare.
@Giorgio. Scenario 1: sei sicuro che ti credano? Scenario 2: sicuro che la scaltrezza possa essere apprezzata quando può essere impiegata anche per gestire i rapporti con te?
Ci sono altri scenari, a mio avviso, compativbili con il fatto che dobbiamo provare a metterci nei pannio della nuova azienda e scoprire che il nostro uomo può confrontarsi con noi in questo modo.
Ci paice? Non ci piace? Che ne dite?
Grazie Giorgio e a presto leggerti.
Arduino