Perché ce la raccontiamo?
Quelli di cui voglio parlarvi oggi è un tema importante, che ci porta a tenere comportamenti che non sempre ci giovano.
La dissonanza cognitiva è nota a prevalentemente a persone che si occupano di psicologia sociale o altre discipline che con questa interagiscono: poiché non posso definirmi un esperto in materia, mi scuso in anticipo per eventuali inesattezze.
Veniamo al sodo.
La teoria della dissonanza cognitiva, formulata da Festinger nel 1957, intende spiegare le situazioni in cui una persona viene a contatto con due o più elementi “cognitivi” (quali ad esempio nozioni, opinioni o credenze) fra loro contrastanti, cioè “dissonanti” (da qui il nome della teoria).
La dissonanza può avere natura diversa: di tipo logico, riferita a comportamenti tenuti in passato, dissonanza con l’ambiente (per costume, cultura, ricchezza).
Una persona che esprime idee o tiene comportamenti coerenti fra loro vive una situazione emotivamente soddisfacente, poiché esiste consonanza fra gli elementi cognitivi di cui dispone; ma se gli stessi elementi sono fra loro incoerenti (o, appunto, dissonanti) la persona si troverà a vivere un disagio che cercherà di ridurre o eliminare.
Il tentativo di compensare la dissonanza attiverà processi elaborativi che richiederanno un’energia commisurata all’entità della dissonanza.
In generale, la dissonanza cognitiva può essere ridotta o eliminata in tre modi:
- producendo un cambiamento nell’ambiente;
- modificando il proprio comportamento;
- modificando la propria rappresentazione del mondo.
Un esempio? Eccolo qua.
Un fumatore si trova a dover colmare due elementi cognitivi fra loro fortemente discordanti: fumare è una piacevole abitudine, che però rappresenta la principale causa di cancro ai polmoni e di malattie cardio-vascolari.
La dissonanza da comporre è il piacere del fumo e il rischio al quale si espone la salute o la stessa vita.
Come agisce, un fumatore, per compensare questa dissonanza?
Vediamo alcuni tipici pensieri, senza la pretesa di essere esaustivi:
- da questo momento smetto di fumare;
- lo so che fumare fa male, ma tanto posso smettere quando voglio. E vedrai che presto lo farò!
- cancro ai polmoni e malattie cardio-vascolari colpiscono solo persone predisposte;
- noi siamo di famiglia resistenti alle malattie. Del resto mio nonno ha vissuto oltre 90 anni senza fumare mai meno di due pacchetti di sigarette al giorno…;
- ho trovato su Internet diversi studi che dicono che il fumo con il cancro ai polmoni non c’entra niente;
- questi allarmismi servono solo a vendere più strumenti per far smettere la gente di fumare;
- per le poche sigarette che fumo che vuoi che mi prenda, il cancro?
Certamente ho lasciato qualcosa per strada.
Fra i tentativi di comporre la dissonanza che non ho citato non ce n’è uno, a mio avviso più interessante degli altri: quello che porterebbe la persona a pensare che, per lui, il piacere di fumare vale il rischio di essere colpito da cancro ai polmoni.
Tuttavia questa considerazione è poco diffusa, probabilmente perché legata al fatto che il fumatore riconosce, attraverso di essa, di non volere o saper rinunciare al fumo pur essendo consapevole del rischio che corre.
E allora l’attenuazione della dissonanza avviene attraverso tentativi che proiettano la soluzione nel futuro (punto 2), minimizzano (punto 7), o che proteggendo così la stima di sé mettendo la situazione al riparo dalla scelta personale.
Insomma, il meccanismo è quello che la volpe adotta con l’uva o, ad esempio, quello che ci porta a giustificare l’insuccesso con ragioni diverse dalle nostre prestazioni: insomma, spesso ce la raccontiamo accampando scuse che non stanno neanche troppo in piedi.
Ti convince? Ti sei mai trovato in situazioni come quelle che ho citato?
PS: se vuoi approfondire il tema della dissonanza cognitiva puoi leggere questo libro. Inoltre sappi che toccherò ancora il tema in futuro.
Mi convince eccome, visto che mi sono trovato proprio in questa situazione. Secondo me la dissonanza è ancora più forte tanto che – per restare alla musica – la paragonerei al tritono. Forse è vero che il fumatore riconosce di non volere o non sapere ma non riconosce di essere dipendente. Però è vero: tante volte me la sono raccontata e continuo a raccontarmela pure io. Grazie e ciao, A.
Caro Arduino, ma se non ce la raccontassimo sarebbe duro ammettere le nostre debolezze, allora sì che il disagio crescerebbe diventerebbe ingestibile con tutto quello che ne consegue….i danni potrebbero essere maggiori. Invece il nostro cervello è programmato per trovare una soluzione…..che è quella di raccontarcela appunto.
Io ho un sacco di esperienza in tal senso…potrei essere un’ottima insegnante, che ne dici organizziamo un corso??
@Tiziana. Magari potremmo cominciare con un post scritto a 4 mani. Titolo: 10 (o quanti vuoi) modi per raccontarsela efficacemente.
Sottotitolo: lo specialista in dissonanza cognitiva.
Perché non cominciare a scrivere alcuni comportamenti tipici, che penserò io a raccogliere?
Che ne dici @Armando, sei dei nostri?
Intanto grazie e a presto leggervi.
Arduino
Non vorrei raccontarmela troppo ma non saprei da che parte cominciare! 🙂 Comunque sia, dai, posso sempre cominciare come correttore di bozze.
Credo che Tiziana abbia ragione e la motivazione potrebbe essere una sorta di non accettazione della nostra finitezza e della nostra “erroneità”. Provo a spiegarmi meglio anche se non sono certo di esprimermi nel modo giusto perché il concetto che ho in testa è solo abbozzato e mi viene da una panatura di analisi transazionale. La componente adulta dell’io è quella non ce la farebbe raccontare perché vede (e “dice”, soprattutto “dice” – e Dio solo sa quanto è importante dire, dirla, dirsela…) le cose come stanno. Però ci sono le componenti del bambino adattato e compiacente e del genitore critico che sono quelle che ci spingono a raccontarcela e ci riescono fin tanto che comprimono la parte adulta. Se invece l’adulto si allarga e “domina” la scena, allora la parte bambina e quella genitoriale tornerebbero al loro ruolo più consono, per cui accetteremmo serenamente la nostra finitezza e la nostra erroneità. L’ho riletto, mi sa che si capisce 🙂 anche se, da come l’ho messa, per uscirne sembra un po’ la storia dell’uovo e della gallina.
Ciao, A.
Bene provo ad iniziare buttando giù qualcosa.
I 10 modi(o più) per raccontarsela efficacemente:
1) cercare delle scuse plausibili
2) trovare delle scuse plausibili
3) convincersi che non c’era altra soluzione o che quella era la meno dolorosa (influenzati dai punti 1 e 2)
4) affermare di aver agito in buonafede
5) autoconvincersi di aver agito in buonafede
6) autoconvincersi che era la soluzione migliore
7) prendere coscienza della nostra “umanità”
8) accettare che errare è “umano”
9) non sentirsi più degli stupidi in virtù del punto 7
10) raccontarsi che può succedere a tutti
11) perdonarsi per essere stati sciocchi e sprovveduti conseguenza del punto 10.
Passo la palla…a presto!
Mi pare un eccellente inizio Tiziana.
Che ne dici Armando? Vuoi integrare?
Beh, si potrebbe cambiare il titolo ne “Il manuale del perfetto raccontatore”. L’endecalogo traccia un percorso quasi infallibile e sul “come” fare al momento non riesco a trovare un modo in più, se non creando un mostro:
12) autoconvincersi che essere stati sciocchi e sprovveduti è umano
13) non sentirsi più degli stupidi in virtù del punto 12
14) raccontarsi che può succedere a tutti
15) perdonarsi per essere stati nuovamente sciocchi e sprovveduti conseguenza del punto 14
16) …