Che cosa succede al mondo della carta stampata?
Perché i giornali vendono sempre di meno, almeno nella forma cartacea?
E le agenzie di notizie, mantengono o no il ruolo di garanzia della qualità dell’informazione in un mondo in cui siti Internet di varia natura e blog assurgono al rango di fonte autorevole?
Giornalista di grande esperienza internazionale, Giampiero Gramaglia ci offre sia la sua visione della crisi della stampa, sia uno spaccato di come sta cambiando il modo di fare giornalismo.
Senza rinunciare a raccontarci di come i nuovi media stanno influenzando il modo di fare informazione.
Di seguito l’intervista.
Domanda.
Tu sei da sempre giornalista di agenzia: hanno ancora un ruolo di garanzia della qualità dell’informazione?
Risposta.
Una generazione di giornalisti fa, la mia, gli appunti si prendevano sul taccuino e le notizie si scrivevano con la macchina per scrivere.
Nei trent’anni che ho trascorso all’ANSA, l’evoluzione dei mezzi e dei vettori con cui le notizie vengono prodotte e trasmesse è stata impressionante; e anche le modalità di confezione delle notizie e i loro destinatari sono cambiati in modo impressionante.
Ma i criteri di qualità del prodotto di base delle agenzie, le notizie, sono sostanzialmente rimasti inalterati: la tempestività; l’affidabilità; la completezza; e la fruibilità, cioè la possibilità di essere utilizzate, se possibile tal quali, da media diversi, quotidiani, periodici, radio, tv, siti, e da clienti non media.
Oggi, le notizie sono scritte con i pc –viene quasi la tentazione di dire “dai pc”-, sono diffuse via satellite e sono (quasi) totalmente ‘delocalizzate’: non ha importanza, cioè, dove il fatto avvenga e dove sia chi lo scrive. E tutto va molto, ma molto più veloce.
Quando entrai all’ANSA, il tempo minimo che ci voleva perché una notizia davvero urgente andasse in rete, cioè dal momento che il giornalista ne veniva a conoscenza al momento in cui gli utenti la ricevevano, era di parecchi minuti, se proprio tutto andava bene e se la notizia era un ‘flash’, specie allora rarissima. Oggi, se la tecnologia non s’inceppa, e se l’errore umano non ci mette lo zampino, il lasso di tempo è di pochi secondi (e i flash si sono moltiplicati, non perché le notizie importanti siano di più, ma perché la percezione delle notizie è divenuta più frenetica).
Allora, ci voleva un minuto perché le telescriventi – altro oggetto, come le macchine per scrivere, ormai d’antiquariato giornalistico – battessero una notizia non lunga, una ventina di righe, e almeno tre minuti perché battessero un servizio lungo – infatti, li si divideva in takes di 24 righe al massimo, così che non paralizzassero troppo a lungo le trasmissioni -; oggi, in un minuto di ricezione si possono addensare dieci e più notizie.
Inoltre, le agenzie hanno trovato una molteplicità di vettori di trasmissione e di sbocchi d’utenza: da media ‘mediato’, cioè destinato esclusivamente ad altri media e, quindi, da prodotto destinato a subire un’inevitabile ulteriore mediazione giornalistica, sono diventate strumento destinato anche a una fruizione diretta da parte del singolo utente, specie su internet -il sito ansa.it è oggi il terzo più visitato d’Italia e ha circa 80 milioni di contatti al mese- e con i loro notiziari in voce e in video.
Se una volta l’ambizione era di dare “tutte le notizie”, oggi l’impegno è quello di scegliere e certificare, nell’universo in espansione delle notizie disponibili, quelle davvero utili e rilevanti.
Se una volta “i clienti” erano solo i media, cioè altri giornalisti, o le istituzioni, oggi gli utilizzatori sono pure le aziende o i singoli. Le agenzie devono fornire loro bussole per orientarsi nel flusso caotico e continuo di notizie e informazioni: i notiziari non vanno prosciugati di notizie, ma vanno ordinati e incanalati, con una consapevole riappropriazione della responsabilità, della volontà e della capacità di selezionare quel che conta ed è importante.
Sul piano delle quantità, le Agenzie devono essere filtro e calmiere contro il rumore di fondo assordante della massa d’informazione disponibile. Sul piano della qualità, si tratta di evitare di subire, senza esserne partecipi, la canea dell’informazione urlata e di avere la capacità di contribuire, con la bontà e l’efficacia delle scelte, alle valutazioni di utenti e clienti, oltre che di agire come frangiflutti contro la mala-informazione.
Nel momento in cui, infatti, la quantità d’informazione disponibile, sui siti e sui blog di internet, nella comunicazione istituzionale e aziendale, oltre che sui media, è enorme e impossibile da gestire, il compito di un’agenzia di stampa non è quello di tentare di riprodurne l’integralità, il che sarebbe inutile, ma di rispecchiarne le diversità e, soprattutto, d’individuarne l’essenziale, l’importante e l’emergente, per proporlo ai suoi utenti con prontezza e duttilità, conservando, inoltre, la capacità di cambiare gioco in ogni momento.
Domanda.
Cambia il ruolo dell’agenzia in un mondo in cui assume sempre più importanza il ruolo dell’informazione non mediata, quale blog e siti Internet di varia natura?
Risposta.
Un’informazione sempre più ‘fai-da-te’ e sempre meno ‘mediata’ da figure professionali, come editori e giornalisti?, oppure un’informazione dove la disponibilità online di ‘troppi’ documenti rafforza l’esigenza di selezione?
Un’informazione sempre più gratuita, perché nessuno è più disposto a pagarla?, oppure un’informazione dove l’accesso è libero a spazzatura e pettegolezzi, ma dove la qualità, la tempestività, l’accuratezza, la completezza, l’affidabilità si pagano bene? Un’informazione, audiovisiva, ma non solo, che rinnega il servizio pubblico?, o che lo riscopre e lo rivaluta nel segno del mix tra autorevolezza / indipendenza della formula Bbc?
Sono alcuni degli interrogativi di fondo sul futuro dell’informazione e dei media: domande senza risposte certe da parte mia e forse senza risposte certe ‘tout court’. Del resto, i segnali che cogliamo nel presente sono incerti e spesso contraddittori.
Due esempi di incertezza e contraddizione. Il primo: l’informazione diffusa, affidata a blog e/o ‘citizen journalist’, è spesso vantata come più libera e democratica di quella tradizionalmente affidata a media e giornalisti; eppure, essa va sviluppandosi in una società in cui il ‘digital divide’, cioè lo spartiacque tecnologico, non solo fra generazioni, ma anche fra ceti e fra Paesi, è ancora fortissimo e minaccia di allargarsi.
Il secondo: la gratuità dell’informazione è stata finora un mantra dell’online, con poche eccezioni, ma recentemente c’è stata un’inversione di tendenza netta, che i puristi del web contestano e contrastano con grande forza, affermando che chi imbocca la nuova via va alla perdizione certa.
Dalla prassi dell’accesso libero, s’è passati alla scelta dell’accesso a pagamento, offrendo in pegno al visitatore una garanzia di qualità. A guidare il cambio di passo, che va, però, avanti fra esitazioni e incertezze, è stato Rupert Murdoch: il proprietario e uomo forte della News Corp ha infatti annunciato l’estate scorsa che tutti i siti web dei suoi media faranno pagare agli utilizzatori l’accesso nel giro di un anno.
Domanda
Giornali di carta e giornalisti sembrano condannati da una crisi che sembra non avere fine. Cosa ne pensi della situazione attuale?
Risposta.
Qualche punto fermo, in questo panorama di incertezza e contraddizione, c’è, ma riguarda l’analisi del presente, non la visione del futuro: in tutto il Mondo, i media tradizionali sono sotto attacco; e, in Italia, entro il 2010, un’intera generazione di giornalisti, i sessantenni del ‘baby boom’ seguito alla Seconda Guerra Mondiale, saranno ‘espulsi’ dalle redazioni, in un processo di riorganizzazione traumatico, dove riduzioni dei costi e ringiovanimento dei ranghi non significano automaticamente e subito migliore efficienza e maggiore qualità.
Pochi dati per suffragare la crisi mondiale dei media tradizionali. Le vendite dei quotidiani in Usa continuano a calare e a ritmo accelerato, indica un rapporto dell’organizzazione no-profit Audit Bureau of Circulation, che censisce la diffusione dei giornali a pagamento. Le vendite sono scese del 10,6% tra aprile e settembre di quest’anno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, mentre nel semestre precedente il calo era stato del 7,5% .
L’unico quotidiano a crescere nella ‘top 25′ dei più venduti (e appena dello 0,6%) è il Wall Street Journal, che è diventato il più diffuso degli Stati Uniti, superando l’ex numero uno Usa Today, la cui diffusione è calata di circa 400 mila copie al giorno, quasi un quinto del totale. Il New York Times’, pur rimanendo al terzo posto, scende sotto il milione di copie al giorno, con un meno 7,3%.
Fra le cause del crollo della diffusione, la migrazione dei lettori sul web, la crisi, la diminuzione delle copie diffuse gratuitamente (per esempio sugli aerei e negli alberghi), oltre al peggioramento della qualità innescato dai tagli di bilancio.
E, infatti, nella classifica dei primi trenta siti di informazione statunitensi, l’Huffington Post, il blog aggregatore di notizie di Arianna Huffington, ha superato il sito del Washington Post, stando ai dati di settembre dalla società di valutazione Nielsen Online diffusi da Editor & Publisher. In un anno, l’Huffington Post è cresciuto del 26%, raggiungendo in settembre 9,4 milioni di utenti unici, mentre il Washington Post è sceso del 29%, a 9,2 milioni. Nello stesso periodo, fra i siti d’informazione collegati a grandi media tradizionali, quello del NYT è cresciuto del 7%, arrivando a 21,5 milioni di utenti unici. E meglio hanno fatto, in percentuale, il Daily News (+54%) e il Guardian (+ 51%). Ma il record di crescita, con un +373%, spetta a un sito non collegato a un media tradizionale, Examiner, 22.0 in assoluto. Queste cifre vanno però prese con prudenza: la Nielsen Online ha ampliato di otto volte il suo panel, alterando il confronto anno su anno.
Domanda
Che cosa sta realmente cambiando nel modo di fare informazione?
Risposta
Il 16 aprile 2007, massacro alla Virginia Tech University, è una data nelle cronache delle stragi nei campus Usa, non la prima, neppure l’ultima. E’ uno di quei giorni di straordinaria follia in cui la violenza, e magari la paranoia, prevalgono sull’umanità. Ma è pure un giorno che resterà nella storia dell’informazione: le prime immagini di quanto avviene nell’ateneo sotto assedio non le dà la Cnn, o una tv locale, ma vengono affisse sul web da un videofonino, mentre l’enciclopedia online Wikipedia tiene botta con le agenzie di stampa internazionali nell’aggiornare l’informazione sulla vicenda, che diventa subito una voce in evoluzione del suo lessico universale.
La tragedia della Virginia Tech, che mette sotto shock l’America, evocando i fantasmi ormai ricorrenti della strage alla Colombine High School, segna un’affermazione dei new media. La Cnn li cavalca, stando, ancora una volta, una spanna davanti ai suoi concorrenti e mandando in onda per prima fra le tv ‘all news’ Usa, le immagini della sparatoria raccolte via web: 41 secondi che finiscono nella sezione I-Report dell’emittente di Atlanta, aperta ai contributi in immagini dei ‘citizen journalists’. A inviarlo alla Cnn, è uno studente, Jamal Albarghouti, che vede e filma agenti sparare davanti a una palazzina neogotica e, quindi, farvi irruzione.
Anche la stampa locale si affida ai reporter diffusi per raccontare la storia: il Roanoke Times, il giornale che ha la sede più vicina all’ateneo, invia, certo, sul posto una squadra di cronisti, video-cronisti e fotografi, ma trasforma il racconto momento per momento sull’edizione online in un vero e proprio blog aperto ai racconti, alle testimonianze, agli interventi degli studenti.
Un esempio, il primo forse su scala così vasta e con un impatto emotivo forte e globale, di come i media tradizionali possono utilizzare i new media e vedere in essi non dei concorrenti, ma degli alleati per sopravvivere alla crisi del settore dell’informazione.
Domanda
Perciò la catena dell’informazione cambia. Nuove alleanze al posto di vecchi antagonismi?
Risposta
Sulla carta, l’informazione di base prodotta da un’agenzia, destinata ancora principalmente alle altre testate giornalistiche italiane, e l’informazione dei blog e dei siti di giornalismo civico sono ai due estremi della catena informativa: noi stiamo, o meglio stavamo, al di sotto della soglia di visibilità della notizia per il grande pubblico; i blog e il giornalismo diffuso sono l’agorà dove si discute la notizia di pubblico dominio e dove ciascuno dice la sua, senza che nessuno gli chieda se ha la tessera da giornalista.
Ma la catena dell’informazione, a cavallo tra Secondo e Terzo Millennio, è in evoluzione: i blog, che intrecciano alle opinioni le notizie, diventano fonte; e le agenzie, grazie al web, raggiungono l’utente finale, il cittadino lettore. Un fatto, un dato, una dichiarazione, appena entra nella rete, diventa immediatamente di tutti, universale, e perde rapidamente la riconoscibilità dell’origine: uno sberleffo al copyright e alla proprietà intellettuale.
Nella forma, le differenze sussistono (o, almeno, dovrebbero sussistere). Il giornalismo dell’ANSA, sinonimo in Italia di informazione di base, fatto di notizie ‘schiette’, con pochi aggettivi qualitativi e zero commenti personali, è un po’ l’antitesi dello stile dei siti della blogosfera e del cosiddetto giornalismo civico, alimentati dai contributi che vengono da privati cittadini disposti a intervenire, interagire, discutere, criticare, contestare, rilanciare. Contributi che non sono professionalmente ‘certificati’, ma che possono rivelarsi complementari all’informazione tradizionale, o addirittura, sostituirla quando latita.
Negli Stati Uniti, ad esempio, i blog sono considerati dai media tradizionali una fonte, persino autorevole in alcuni casi, seppure da vagliare con prudenza; soprattutto, i blog sono visti come portatori d’intuizioni sull’impatto e la portata di una notizia, su riferimenti e coinvolgimenti, giocando sovente d’anticipo sugli stessi giornalisti.
Un discorso diverso sono i casi, rari, ma, proprio come nel caso della Virginia Tech, preziosissimi, in cui il blogger è testimone diretto di un evento eccezionale: il 3 agosto, ancora la Cnn, e stavolta pure la Fox, che nel frattempo aveva imparato la lezione, hanno largamente utilizzato contributi e testimonianze inviati e raccolte con videofonini del crollo del ponte di Minneapolis sul Mississippi. Sia l’I-Report della Cnn che l’analogo U-Report della Fox si basano sulla formula ‘voi proponete, noi decidiamo’: nessuna messa in rete diretta e indiscriminata, dunque, ma solo materiale vagliato nell’interesse e, in qualche modo, verificato nell’autenticità, giocando anche sul fatto che eventi come la strage all’Università o il crollo del ponte fanno segnare impennate negli invii.
A livello internazionale grandi agenzie come l’Associated Press hanno da tempo stretto alleanze con i blog o i siti di giornalismo partecipativo più affidabili. In Italia questo è avvenuto soprattutto per i quotidiani: la Repubblica e il Sole 24 Ore sono i due casi sicuramente di maggior rilievo: Repubblica.it è stato affiancato da blog gestiti dai suoi redattori; mentre Sole24Ore.com ha dato vita all’iniziativa Nova 100, per ospitare un centinaio di blog gestiti da altrettanti personaggi italiani di spicco in vari settori. E proprio il giornale economico, nell’ottobre 2006, è divenuto
il primo in Italia ad accreditare, sia pure come freelance, un blogger, Massimo Mantellini, a seguire un evento internet internazionale, il ‘Web 2.0 Summit’ di San Francisco.
Un quotidiano online parte, però, avvantaggiato nell’interazione con il mondo del Web 2.0 rispetto a una agenzia di stampa, che, ad esempio, non può contare su una tradizione consolidata di rubriche
per i lettori, come le ‘Lettere al direttore’, per citarne una, facilmente traducibili in un’analoga esperienza interattiva online. Un lettore di quotidiano, sia stampato che informatizzato, ha inoltre l’abitudine di identificare il giornalista che scrive l’articolo e che si firma con nome e cognome, ultimamente integrato anche dall’indirizzo e-mail: facile, dunque, fare il passo dell’interazione.
Affiancare l’informazione d’agenzia tendenzialmente “impersonale” a quella per sua natura “personalizzata” della blogosfera e del Citizen Journalism, far incontrare questi due mondi,
è difficile, ma non impossibile. Per un organo di stampa serio che vuole restare tale, il problema dell’utilizzo dei blog e dei contenuti generati dagli “utenti fonti” è soprattutto l’affidabilità. Non
si può infatti attribuire a priori a un blogger o a un “cittadino giornalista” la stessa capacità e precisione di un giornalista professionista nell’accertare la veridicità di un’informazione e
nel ‘validarla’, se necessario, attraverso un incrocio di fonti e di dati. Senza volere, ovviamente, escludere che il blogger possa avere di suo tali qualità, proponendosi così come fonte attendibile.
Il problema è quello della ‘certificazione’: uno slogan dell’ANSA dice, con tutta l’ovvia roboanza della comunicazione pubblicitaria, che “se è una notizia è ANSA”; il che significa in sostanza che, se un’informazione non è stata data dall’ANSA, non è vera o non merita di essere data. E’ pretesa oggi eccessiva; ma non è eccessivo che ogni agenzia, ogni media garantiscano l’affidabilità delle loro notizie.
Domanda
Le ricette a stelle e strisce, a noi italiani, ci hanno sempre appassionato. Cosa succede ai giornali negli USA?
Risposta
Sono decine i quotidiani statunitensi che hanno chiuso nell’ultimo anno e migliaia i giornalisti ‘tagliati’ –il NYT ha appena annunciato la riduzione di altri cento-. Si spiega così perché, da marzo, è davanti al Congresso una proposta di legge, il Newspaper Revitalization Act, presentata dai democratici Carolyn B. Maloney, deputata di New York, e Benjamin L. Cardin, senatore del Maryland, con l’obiettivo di aiutare i giornali locali facendoli diventare delle organizzazioni non profit, simili alle stazioni radio e televisive pubbliche.
“Se non si farà qualcosa presto molte aree metropolitane non avranno più il proprio giornale con grave danno per la democrazia”. Studi recenti hanno infatti dimostrato che, in assenza di quotidiani che assolvano alla loro funzione di ‘cani da guardia’, nelle città aumentano la corruzione nella gestione della cosa pubblica e il disinteresse del cittadino medio.
A fine settembre per la prima volta anche il presidente Barack Obama, che finora aveva escluso la possibilità di aiuti governativi alla stampa, si è detto disponibile a studiare proposte di legge che prevedano un aiuto economico per quei quotidiani che si strutturino come fondazioni senza fini di lucro. In cambio la proposta di legge prevede che i giornali non possano fare endorsement politici, cioè schierarsi apertamente a favore di un partito, mantenendo però ovviamente la libertà di scrivere su qualsiasi tema e di seguire le campagne elettorali.
C’è stato, invece, l’endorsement del mondo accademico: una ricerca voluta dal rettore della scuola di giornalismo della Columbia University, un documento di 36 pagine intitolata ‘The Reconstruction of American Journalismo’ e redatto da un docente dello stesso Ateneo, Michael Schudson, e da Leonard Downie jr. Il primo è un sociologo che da circa trent’anni si occupa di storia del giornalismo e di cultura pubblica. Il secondo è un grande nome del giornalismo americano, legato da quasi vent’anni al Washington Post.
La ricerca della Columbia, cui ha dato molto rilievo Massimo Gaggi in una corrispondenza da New York per il Corriere della Sera, sposa la tesi dei sussidi ai giornali, ma, come il Newspaper Revitalization Act, non fa certo l’unanimità e solleva molte critiche da parte dei conservatori.
I due firmatari democratici speravano in una convergenza bipartisan sul provvedimento. Ma i repubblicani si sono tirati indietro: a loro interessano poco i giornali locali e molto di più i milioni di persone che seguono con passione Fox, la tivù di Murdoch apertamente schierata a destra, oppure il commentatore radiofonico Rush Limbaugh che ogni giorno vomita accuse e insulti sul presidente Obama.
Quando il Wall Street Journal e i maggiori giornali Usa studiano le strategie per internet con più impegno di quelle per le edizioni cartacee; quando le agenzie non bollano più come anatema la diffusione su internet, ma la considerano uno strumento di penetrazione dei mercati; allora il mondo del giornalismo sta davvero cambiando, anzi è già cambiato, forse senza che i giornalisti che ci stanno dentro se ne siano tutti accorti, almeno fino alla fase d’epurazione in atto. In Italia, la percezione della necessità del cambiamento è stata minore che altrove: da noi, caso senza simili in tutti i Paesi più sviluppati, sussiste, ad esempio, una pluralità di agenzie di stampa che non significa pluralità d’informazione, o specializzazione settoriale, ma semplicemente ridondanza e diseconomia.