Counseling e Coaching nella realtà aziendale - Un'intervista a Giorgio Piccinino

Un’intervista a Giorgio Piccinino, sociologo, psicologo e psicoterapeuta del Centro E. Berne di Milano, autore del libro Il piacere di lavorare.

Il Centro E. Berne opera nel campo della psicoterapia e della specializzazione clinica e psicosociale, oltre che nella formazione aziendale, e rappresenta una realtà fra le più autorevoli nel settore specifico.

Perché intervistare un professionista del Centro E. Berne?

Le persone hanno sempre più bisogno di dare al proprio percorso professionale un indirizzo preciso, raggiungere determinati obiettivi nei tempi desiderati senza trascurare la crescita personale.

Percorsi che, a volte, presentano difficoltà e ostacoli difficili da definire e a superare. Per sostenere la crescita di persone chiave le imprese chiedono sempre più spesso l’assistenza di coach professionisti.

Il tumultuoso sviluppo del coaching ha visto emergere realtà professionalmente qualificate e altre di incerto profilo: abbiamo voluto perciò presentare una realtà di competenza sicura, fornendo un’indicazione che speriamo possa aiutare quanti intendono intraprendere la strada del coaching all’interno dell’organizzazione.

In questa intervista, Giorgio Piccinino da un lato ci illustra il Centro E. Berne e le sue attività, facendo riferimento alle basi teoriche che ne caratterizzano la linea operativa, dall’altro ci fornisce gli elementi per comprendere meglio le peculiarità di due figure professionali relativamente nuove nel panorama italiano, e di cui spesso non si ha una visione sufficientemente chiara: il counselor e il coach.

Giorgio Piccinino ci restituisce una visione chiara ed essenziale del tema, partendo proprio dalla sua esperienza pluriennale maturata presso il Centro E. Berne, e offre un utile parallelo con la psicoterapia da cui counseling e coaching si differenziano.

 

Intervista a Giorgio Piccinino del Centro E. Berne

Milano, settembre 2009

Ci descrive il Centro Berne e le sue attività?

Il Centro attualmente, dopo la recente e dolorosissima scomparsa di una dei suoi fondatori, Maria Luisa Pisani, è composto di cinque soci: Anna Brambilla, Giacomo Magrograssi, Fabio Ricardi, Alessandra Zanuso e io, e sette colleghi che vi operano stabilmente, Silvia Allari, Sandro Anfuso, Dianora Casalegno, Marida Lella, Gabriela Manzella, Dania Preite e Pier Luigi Spatola.
Siamo tutti psicologi e psicoterapeuti individuali, di coppia e di gruppo e quasi tutti anche impegnati nei corsi e nei seminari.

Abbiamo una serie di attività di formazione che cambiano ovviamente nel tempo, quest’anno saranno:

– incontri a tema tema gratuiti, nel tardo pomeriggio, una sorta di mini seminari di due ore su temi di interesse attuale: tempo e lo stress, un genitore quasi perfetto, il cambiamento come fatica e opportunità, donne equilibriste: mogli, madri, lavoratrici ecc, arte ed emozioni, le difficoltà della vita, il piacere di lavorare, la fissazione in amore, la coppia tra conservazione e trasformazione, che sono il nostro modo per farci conoscere e fare divulgazione psicologica.

– seminari esperienziali, di uno o due giorni, più approfonditi dal titolo: incontri d’amore, tempo e stress, introduzione all’Analisi Transazionale, le carezze come nutrimento, psicoterapia e teatro, essere genitori, crescere ed evolvere attraverso le crisi.

E poi ci sono le due scuole:

“La scuola di specializzazione in psicoterapia”, che ha iniziato la sua attività fin dalla costituzione del Centro negli anni ’80, riconosciuta dal MIUR, Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca. Ha una durata di 4 anni ed è organizzata in collaborazione con l’Università Statale di Milano.

“Il counseling e le professioni d’aiuto”, corso triennale riconosciuto dalla SICO, Società Italiana di Counseling, ormai giunto, nella sua forma attuale, alla sua decima edizione, rivolto a psicologi, formatori, consulenti, medici, operatori socio sanitari, educatori, responsabili di gruppi di lavoro o di comunità, o a chiunque voglia migliorare le proprie competenze relazionali per la vita di lavoro.

Nell’ambito di queste due attività organizziamo anche programmi di supervisione annuali post diploma e seminari periodici di aggiornamento professionale.

Diversi di noi, poi operano come consulenti e docenti in attività formative esterne, sia per le aziende private che per enti pubblici o non profit.

Personalmente quest’anno coordino un’attività di formazione per l’Arcispedale di Reggio Emilia chiamata “prendersi cura delle persone che curano” che ha visto la partecipazione di tutti i responsabili dipartimentali e i coordinatori tecnico scientifici dell’ospedale a un corso di formazione su questi temi e che è sfociata in un’attività di counseling di gruppo sulle tematiche del benessere e della felicità sul lavoro.

Con questo programma stiamo lavorando per valorizzare il contributo di tutta la linea gerarchica infermieristica al fine di migliorare la condizione lavorativa, il clima relazionale e l’autostima stessa del personale, tutti elementi che hanno un impatto diretto ed evidente sulla cura anche dei pazienti.

Ho anche appena terminato un intervento, in collaborazione con la Fondazione ISTUD, presso la società multinazionale farmaceutica Daichii Sankio, sull’entusiasmo e l’amore per il lavoro.
Temi a me cari e, di questi tempi, piuttosto importanti e necessari.


Cos’è l’Analisi Transazionale?

L’Analisi Transazionale è una delle teorie psicologiche nate negli anni 50 negli Stati Uniti sull’onda di un vasto movimento di rinnovamento della psicoanalisi. Eric Berne, il suo fondatore, era un medico psichiatra, e a sua volta psicoanalista, che riteneva importante rendere divulgabili e comprensibili i fenomeni psicologici individuali e le dinamiche relazionali, che allora, ancor più di oggi, erano conosciuti da una ristretta cerchia di specialisti.

Cominciò quindi dall’osservazione degli scambi di comunicazione fra le persone (le transazioni , da cui il nome della teoria) che gli permettevano di capire non solo le prevalenti modalità di relazione, ma anche quegli elementi della personalità sottostanti, più profondi. Osservando il comportamento gli analisti transazionali descrivono la personalità suddividendola in diversi Stati dell’Io che rappresentano le funzioni fondamentali di un essere umano e la sua essenza: la parte Bambina con i suoi bisogni di base, gli impulsi profondi e gli adattamenti precoci diventati col tempo automatici e variamente espressivi, la parte Adulta con le diverse capacità logico razionali, elaborative e riflessive e la parte Genitoriale appresa inizialmente dalle figure familiari e votata alla protezione e alla regolazione più o meno rigida, normativa o affettiva, di sé e degli altri.

Naturalmente il buon funzionamento della personalità è il buon funzionamento delle diverse parti, integrate fra loro e messe al servizio della sopravvivenza, della vita associativa, della riproduzione e della soddisfazione dei bisogni.
Berne ha ribadito molti concetti psicoanalitici dandone però una descrizione spesso geniale, come la teoria dei Giochi e del Copione che traducono in modo chiaro e intuitivo concetti come le formazioni difensive e la coazione a ripetere.

Dai primi tempi della psicoanalisi nel mondo della psicologia e della psicoterapia si sono come focalizzate due grandi tendenze: alcune scuole come la psicoterapia della Gestalt, la Bioenergetica, la Sistemico-relazionale si sono specializzate nella descrizione e nel lavoro terapeutico su ciò che accade “nel qui e ora”, tralasciando il passato del cliente e le origini delle sue difficoltà, altre, quelle più ortodosse, diciamo così, come gli orientamenti Junghiani o Kleiniani, rimangono prevalentemente orientate a far emergere dall’inconscio traumi, fissazioni, difese antiche, mettendo al contrario in secondo piano gli eventi del presente.

L’Analisi Transazionale è forse l’unica, e questo ha sancito nel mondo il suo grande successo, ad adottare i due punti di vista contemporaneamente, occupandosi sia dell’osservazione delle manifestazioni attuali della personalità (con i concetti di Stati dell’IO, Transazioni, teoria dei Giochi, Economia di Carezze, ecc.) che della scoperta delle decisioni infantili che determinano la costruzione della personalità (con i concetti di Copione di vita, Ingiunzioni, Spinte, Permessi, Contaminazioni, Esclusione, ecc.).

Un altro elemento distintivo dell’Analisi Transazionale è la sua proverbiale divulgabilità, Eric Berne si vantava di essere in grado di spiegare il comportamento umano a suo figlio di otto anni, e benchè oggi si tenda a pensare che suo figlio dovesse avere un’intelligenza piuttosto superiore alla media, di certo buona parte della teoria è sempre risultata illuminante per chiunque. Ricordo lo straordinario successo, allora sorprendente anche per me, dei miei primi corsi di Analisi Transazionale alle cassiere dei supermercati, i concetti di Genitore, Adulto e Bambino aprivano squarci di consapevolezza immediati, persone abituate a considerare la psicologia come qualcosa di astruso e incomprensibile s’incuriosivano, volevano capire, volevano cambiare.

Devo dire tuttavia che la divulgabilità è stata anche controproducente. Soprattutto nel campo della formazione aziendale della teoria è stata data spesso una versione semplicistica e abborracciata, come fosse un gioco divertente volto ad insegnare ad indossare un abito adatto ad ogni differente occasione, una deriva comportamentistica superficiale presto superata come tutte le mode effimere.

Per coerenza il Centro E. Berne, grazie anche alla serietà, all’impegno e alla professionalità dei suoi soci e dei colleghi che vi operano, ha cercato invece di rimanere sempre attento e rigoroso anche nella divulgazione: ci siamo ampliati progressivamente, svolgendo molta attività formativa, ma rifiutando interventi che non garantissero un livello professionale adeguato ai valori che la stessa Analisi Transazionale ha sempre professato.

Che cos’è il Counseling e che differenza c’è con il Coaching?

C’è molta confusione in giro e, a dire il vero, come sempre succede quando si sente odore di business, anche chi li pratica o organizza corsi fa la sua parte per creare un gran fumo.

Cominciamo con il Counseling.

In molte nazioni europee il Counseling è una professione d’aiuto riconosciuta dallo Stato, cosa non ancora attuata in Italia, come quella di psicoterapeuta.

I Counselor si occupano di persone sostanzialmente sane che hanno bisogno di colloqui di sostegno o di aiuto per affrontare problemi relazionali o anche psicologici senza la necessità di una cura di tipo psicoterapeutico o farmacologico che richiederebbe interventi e setting diversi e normalmente più lunghi.

Riporto qui la definizione data da Francesco Aprile, uno dei diplomati della nostra scuola:

“Quando stai vivendo un momento ingarbugliato e hai bisogno di rimettere le cose a posto, un counselor, attraverso l’ascolto attivo e specifiche tecniche di colloquio, ti sostiene nel ritrovare le tue energie interiori per ripartire.
Ad ognuno di noi può capitare di attraversare momenti difficili e confusi in cui capiamo di avere bisogno di un sostegno più efficace del semplice “momento di sfogo con l’amico del cuore”. Un counselor ti aiuta a scegliere senza scegliere al posto tuo. Ti aiuta a ripartire lasciandoti la responsabilità dei tuoi passi. Ti sostiene nel cambiamento e nel recupero delle tue “energie sopite” nei momenti chiave della tua vita. Il percorso di counseling è quindi per definizione contenuto, legato ad un obiettivo di cambiamento specifico e può essere applicato alle diverse dimensioni della vita: relazioni familiari e/o di coppia, vita professionale, ecc.”

Si tratta quasi sempre di aiutare la persona ad uscire da comportamenti secondo Copione, come diciamo noi, e sviluppare risorse personali frustrate nell’infanzia in funzione di comportamenti adattivi necessari allora, ma oggi obsoleti o addirittura negativi.

Nelle aziende poi c’è un malessere diffuso che specie agli alti e medi livelli non ha trovato fino ad ora figure professionali in grado di fornire un aiuto reale. Spesso cambi di ruolo e promozioni mettono le persone di fronte ai loro limiti o anche esasperano difficoltà rimaste nascoste fino ad allora: ricorrere agli psicoterapeuti è spesso per quelle persone una insopportabile dichiarazione di resa o di patologia e finiscono per cercare la soluzione in una pericolosa farmacopea “fai da te”.

E d’altra parte, se i corsi di formazione sono in genere un ottimo strumento di crescita culturale, di fronte a difficoltà individuali possono solo, nel migliore dei casi, fornire un po’ di consapevolezza del problema.

In questi casi il counselor è una figura utile ed efficace: quando è ben preparata ed esperta è la figura professionale giusta per dare un aiuto immediato oppure aiutare a maturare una scelta “curativa” diversa, a seconda delle necessità.
Molte società di consulenza cominciano ad offrire colloqui di counseling accanto o a conclusione delle attività di formazione, out sourcing e selezione, così come molte aziende stanno mettendo a disposizione dei propri quadri e dirigenti delle sedute di counseling nei momenti di passaggio di ruolo.

Quello che bisogna però dire è che aiutare le persone, in qualunque modo venga fatto e in qualunque contesto, come sportello d’ascolto, come volontariato, come colloquio a fronte di una crisi sul lavoro, come supporto per un divorzio, come consulenza per genitori di bambini problematici, come aiuto per la perdita di un lavoro, come miglioramento di performance sportiva ecc. è un’attività difficile e delicata, in cui la buona volontà, l’altruismo … e la pazienza non bastano.

Bisogna tener presente che nemmeno un laureato in psicologia è formato alla relazione d’aiuto, non conosce la metodologia di un colloquio che non sia diagnostico, non conosce le tecniche di intervento possibili, e ce ne sono ormai tante, e soprattutto di solito non ha fatto un percorso personale di psicoterapia che lo metta in grado di essere equilibrato, non proiettivo, non influenzante o contaminato dai suoi stessi problemi, mentre si relaziona a una persona in difficoltà.

Aiutare le persone in modo professionale dunque richiede alcune prerogative indispensabili, provo a riassumerle:

– avere un orientamento di base della propria personalità di tipo altruistico
– aver fatto un percorso psicoterapeutico orientato alla consapevolezza di sé, all’equilibrio individuale e a modalità  relazionali rispettose e paritarie
– conoscere le basi del comportamento umano
– conoscere le dinamiche interpersonali e i comportamenti adeguati alla loro gestione
– conoscere le metodologie di un colloquio d’aiuto
– conoscere le tecniche per aiutare le persone a individuare opzioni alternative di comportamento (problem solving)
– conoscere le tecniche per sviluppare le potenzialità (empowerment)
– saper individuare rapidamente comportamenti disturbati per orientare le persone alle cure più appropriate
– mantenere un rapporto di supervisione con persone più esperte
– ecc.

Dunque chiunque voglia intraprendere una professione d’aiuto dovrebbe seguire un percorso che preveda la realizzazione di queste condizioni.

Di fatto la maggioranza di chi frequenta il nostro corso triennale “il counseling e le professioni d’aiuto” non diventa un counselor professionista, con un suo studio privato, una sua clientela ecc. ma continua a fare il proprio lavoro: l’educatore, la psicomotricista, il mediatore familiare, il formatore, il selezionatore, il medico, lo psicologo, il selezionatore, il direttore del personale, il dirigente di comunità, l’assistente sociale, l’infermiere, ecc., lo fa però sapendo, quando necessario, fornire un supporto professionale ed efficace anche per l’evoluzione e la crescita delle persone.

Non dobbiamo nemmeno dimenticare che spesso, quando entriamo in contatto con il dolore o l’infelicità, ne siamo coinvolti emozionalmente ed essere preparati a fronteggiare situazioni difficili aiuta anche l’operatore a non venire travolto dai problemi che dovrebbe aiutare a risolvere.

Essere formati significa anche saper mantenere il proprio benessere intatto in modo da non finire rapidamente in burn out e abbandonare il lavoro.

Aiutare gli altri è un’attività umana bellissima e piena di soddisfazioni, ma solo se si è messi in grado di farla bene e si hanno le qualità umane per esercitarla.

Detto questo è ovvio che un corso triennale, l’analisi personale e la supervisione almeno per i primi tempi di attività è indispensabile, e questo facciamo al Centro E. Berne.

Poi ogni tanto leggo di corsi di counseling che durano qualche mese o un anno e mi cascano le braccia.

Come minimo direi che chi è interessato dovrebbe, se si rivolge a un counselor chiedere che corsi ha fatto, dove, e se è iscritto alla SICO, la Società Italiana di Counseling che ha un suo codice etico, un suo registro privato dei counselor, un suo esame per i diplomati, una sua lista delle scuole autorizzate con corsi triennali, un suo obbligo di tirocinio, supervisione e aggiornamento professionale.

Mica poco come garanzia di serietà per chi è iscritto.

E questo vale anche per le scuole autorizzate dalla stessa associazione a proporre corsi di formazione per counselor.

E veniamo al Coaching.

Il coaching è nato come un affiancamento in azienda di una persona più esperta per un certo lavoro e infatti come attività di formazione è attualmente orientata a manager e responsabili delle Risorse Umane che intendono utilizzarlo come una delle leve strategiche per lo sviluppo dei propri collaboratori.

Raramente si tratta di una professione, è per lo più una capacità di guida e supporto per le risorse aziendali che si affianca ad altre attitudini e competenze gestionali.

Si tratta di corsi che possono durare qualche mese o un anno e formano soprattutto alla diagnosi delle problematiche di ruolo, della definizione dei gap fra prestazione offerta e richiesta e all’uso di tecniche comportamentali per il problem solving e lo sviluppo di alcune potenzialità tipiche per il successo nel mondo produttivo.

Si parla però di coaching anche a proposito di attività temporanee di affiancamento per l’inserimento di persone in un certo ruolo professionale.

La necessità di incontrare un coach deriva dal fatto che se una persona necessita di un salto di qualità reale su alcune capacità strategiche, che possiede solo in parte, può essere aiutata da una persona esperta che conosca approfonditamente le problematiche di ruolo di quell’organizzazione specifica per aiutare a sviluppare i comportamenti voluti.

Di solito viene fatto un bilancio di competenze, un percorso mirato a fare pratica di certi atteggiamenti, un allenamento “sorvegliato” nel tempo, un supporto nei momenti difficili e poi simulazioni, role play e tecniche comportamentiste.

Rispetto al counseling, anche se devo dire che questo dipende molto dalla persona che si incontra e dal suo orientamento valoriale, siamo nell’area dello sviluppo delle capacità professionali che non necessariamente tiene conto dell’intero individuo e delle sue problematiche di personalità.

La formazione psicologica per i coach, del resto, è ridotta all’osso e le persone che frequentano queste scuole non hanno di solito una formazione umanistica ma manageriale.

Mi sembra comunque di poter dire che le scuole di counseling e di coaching non sono necessariamente in concorrenza fra loro, capita spesso che diplomati in una delle due scuole completino poi un percorso nell’altra, sono corsi di portata e intensità diversa, con un coinvolgimento ed una crescita anche personale diversa, in genere quelli di counseling possono fare da base con una formazione relazionale, psicologica, metodologica per lo sviluppo della personalità su cui innestare approfondimenti di metodiche più specifiche per la vita aziendale.

Peraltro non c’è dubbio che un dirigente d’azienda di alto livello, per esempio, per affidarsi in un percorso di sviluppo personale, ha bisogno sì di avere un interlocutore di età adeguata, e certo con una competenza elevata dei processi organizzativi aziendali, ma anche e soprattutto di una persona particolarmente esperta dei complessi meccanismi psicologici che limitano le potenzialità e l’equilibrio delle persone.


E la psicoterapia?

Quando dico che faccio lo psicoterapeuta quasi sempre mi domandano come faccio ad ascoltare continuamente persone che si lamentano, che stanno male, che portano sofferenza e disagio anche rilevanti.
Si immaginano un lavoro logorante, pesante, opprimente.

E’ incredibile, forse hanno in mente ancora lo psicoanalista classico, una specie di prete serio e silenzioso, contegnoso e austero.

Insomma hanno un’idea della psicoterapia come una specie di calvario, un percorso di sofferenza pieno di trappole in cui il paziente (molto paziente) viene condotto alla ricerca di una sua qualche mostruosità interiore da estirpare.
Ma chi mai farebbe da Virgilio in un inferno simile?

In realtà durante i primi incontri è pur vero che uno psicoterapeuta deve in genere ascoltare con attenzione e vicinanza lunghe storie di dolore e difficoltà, ma poi prevale di gran lunga il tragitto verso la rinascita.
Più che a contatto con la sofferenza io mi sento a contatto con la gioia della cura e della guarigione. Per me è un lavoro bellissimo.

Non ci sono tanti lavori così, in cui si prende per mano qualcuno e si cammina al suo fianco verso una vita nuova. E di cui poi se ne ha anche qualche merito.

Un altro bel pregiudizio riguarda il contenuto del lavoro, molti credono che si tratti di un percorso intellettuale, astratto, tutto mentale, credono che si vada dallo “strizzacervelli”, (termine veramente programmatico!), per pensare e approfondire, una specie di minuziosa indagine del profondo, dove lo psicoterapeuta ti spiega non solo le tue idee, ma anche come sei fatto e ti racconta per bene come dovresti essere.

Si immaginano per lo più delle conversazioni un po’ astruse sui massimi sistemi, cervellotiche elucubrazioni interminabili, anche se certo affascinanti, per un certo pubblico intellettuale. Del resto molta letteratura, pressoché incomprensibile ai comuni mortali, è lì a confermare tutto questo.

Vediamo di spiegare come stanno invece le cose, almeno da noi al Centro E. Berne.

Normalmente una persona arriva e racconta.
Vuota il sacco tenuto chiuso per anni e trova qualcuno che lo ascolta con attenzione e partecipazione, ed è quasi sempre la prima volta in vita sua.
E questo è già liberatorio e in parte un sollievo.

Poi insieme si comincia a capire cosa c’è sotto e a trovare le costanti di certi comportamenti o di determinate emozioni, si cerca di fare un po’ di chiarezza insomma, e di capire cos’è successo per essersi “ridotti” così.
Una prima parte della terapia serve a conoscersi reciprocamente e a trovare una sintonia, un’alleanza verso un obiettivo di consapevolezza e di cambiamento che deve essere condiviso.

Dobbiamo creare una sorta di comunione di intenti e di metodo.

Si lavorerà insieme e dunque l’obiettivo, e il modo in cui lo si persegue, deve essere condiviso. Dobbiamo pensare che il paziente e lo psicoterapeuta sono fisicamente e umanamente fianco a fianco e che l’itinerario che si farà sarà sempre chiarito, passo dopo passo.

Poi, dopo un po’, quando il paziente è pronto (e d’accordo) entra in un gruppo.
Entra in un gruppo in genere di otto persone, già formato da anni, con una sua cultura speciale, con proprie usanze e modelli di relazione, il luogo ideale per fare terapia, secondo noi.

E qui il nostro paziente trova un ambiente sorprendente.
Ci sono perone di diversa età, di ceto sociale variabile, con disturbi e sofferenze disparate, con anche gradi di equilibrio e benessere diverso, qualcuno è entrato da poco e qualcun altro sta lì da cinque anni e magari sta finendo, e tutti sono curiosi, accoglienti, benevoli.

Di solito entra mentre qualcuno se ne sta andando e lo sostituisce, e assiste, fra l’invidioso e l’incredulo, al suo finale.
Il gruppo di terapia ben presto sconvolge una serie di pregiudizi e di false credenze su di sé, sulla vergogna per le proprie “magagne”, sulla propria inaccettabilità, sulla indisponibilità degli altri a capire e soprattutto sull’unicità della propria condizione di paria maledetto.

Succede una cosa strana nei gruppi e meravigliosa: man mano che le persone si aprono e parlano di sé anche i comportamenti più devianti e difesi, più limitati e problematici, svelano la loro ragion d’essere storica, mostrano da quale ambiente familiare inappropriato sono derivati, da quali traumi e mancanze d’amore scaturiscono. A tutti diventa chiaro che quelle sofferenze (non mi va di chiamarle patologie) hanno un’origine, un nome, un cognome e un indirizzo di partenza, un tempo d’incubazione e di conferma che le ha rese inevitabili e in un certo senso necessarie.

Così nei gruppi si impara a capire l’altro e a guardarlo con compassione e tenerezza. E anche il singolo lo fa: comincia a volersi bene e ad accogliersi, a perdonarsi per essere stato così, a capire che se pure è diventato così, così non era all’origine, e dunque, seconda grande meraviglia, cambiare si potrà.

Questo è spesso il momento delle lacrime e dei singhiozzi o delle rabbie finalmente liberate o delle paure non più represse.

La pentola si scoperchia pure, ma tutto questo avverrà insieme ad altri che lo accoglieranno. Ci sarà qualcuno che tiene la mano, qualcuno che contiene e protegge, qualcun altro che piange con te, perché è stato, o è, come te.
E alla fine si finirà quasi sempre abbracciati.

Così il gruppo e il terapeuta aiutano a trovare ciò che nell’infanzia non è stato mantenuto, aiutano a ripristinare progressivamente la naturalezza originaria: la vicinanza, l’autostima, la voglia di vivere e la capacità d’amare, l’autonomia e l’individuazione, compromesse e bloccate sul nascere.

E poi il gruppo sarà il luogo dove cominciare a sperimentare subito, proprio qui davanti a tutti, i nuovi permessi mai ricevuti, le nuove modalità di relazione sane e finalmente soddisfacenti.

Alle lacrime e alle urla si sostituiscono i sorrisi, il vittimismo è rimpiazzato dal coraggio e dalla presa di responsabilità. Presto si capisce che ora tocca a ciascuno prendere la vita nelle proprie mani e cambiare se stesso, mentre il terapeuta è lì a far scoprire diverse opzioni, nuove libertà, altri modelli di comportamento, nuove possibilità.
Naturalmente non è facile cambiare i pensieri, le emozioni, i comportamenti e i funzionamenti corporei stabilizzati da anni, ma quando si comincia la natura profonda e sana, la vera natura umana, prende il sopravvento: la vitalità originaria di un essere umano, l’amorevolezza di partenza, la curiosità, la voglia di agire e di essere felici, la voglia di dare un senso e un significato alla propria esistenza non si sconfiggono facilmente, covano sempre sotto la cenere. E quando cominciano a riaffiorare danno subito gioia e felicità.

Sta al terapeuta soffiar via gli strati di ignoranza, di noncuranza, di insensibilità, di abbandono e violenza che le hanno coperte e rese inattive.
Ma quando si arriva qui … comincia lo spettacolo!
E il percorso finale una marcia trionfale.

Non succede sempre, certo, qualche volta il risultato non è proprio esaltante, qualche volta la strada diventa lunga e tortuosa, qualche volta ci si lascia prematuramente e altre volte ci si accontenta, qualche volta si è impotenti e altre frettolosi, ma è raro che la strada fatta non sia servita.

E poi vorrei essere esplicito anche di più: gli esiti delle psicoterapie non sono squarci di conoscenza e consapevolezza, non solo almeno, il finale è un cambiamento concreto, bello evidente, di quelli da raccontare.
C’è chi riprende a fare l’amore, chi smette di scappare dalle relazioni, chi trova finalmente un lavoro soddisfacente, chi dimagrisce e sconfigge l’obesità e chi ingrassa un po’, chi dorme dopo anni d’insonnia, chi impara ad amare se stesso e chi il prossimo, chi si trova un amore e chi resta insperatamente incinta, chi sente le emozioni e alla buon’ora ride, chi smette di avere paura e di nascondersi, chi impara ad avere rapporti intimi e chi a difendersi dall’invadenza degli altri, chi smette di lavorare come uno schiavo e chi impara a lavorare e a concludere qualcosa nella vita, chi diventa grande e chi ricupera la propria parte bambina, chi compra finalmente casa e chi invece da casa se ne và, chi riconquista la propria mascolinità e chi la propria femminilità, chi si accetta com’è e chi smette di accontentarsi di com’è.
E io sono lì a gioire!

Chi vuol saperne di più in un modo un po’ inconsueto può leggere un libro che ho scritto diversi anni fa, “La forza del destino” (ormai è esaurito, ma lo si può trovare al Centro E. Berne), in cui ho raccolto diversi itinerari di terapia trascrivendo esclusivamente le parole dei pazienti. Riportando fedelmente registrazioni, appunti e lettere ho composto una specie di documentario il più possibile fedele di quanto succede in uno studio di psicoterapia.
Mi hanno detto che è come essere lì.