Il titolo originale del film “Il diritto di contare” è “Hidden Figures”, ed è tratto dal libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly.
Il film racconta la storia di Katherine Johnson, matematica afroamericana che nel 1961 ha un ruolo fondamentale nella costruzione della missione Apollo 11, quella che il 20 luglio del 1969 porterà il primo uomo sulla luna; il suo ruolo consiste nel calcolo delle traiettorie nelle fasi di decollo e rientro della navicella spaziale.
Al suo fianco troviamo le colleghe e amiche Dorothy Vaughan, che coordina in modo non ufficiale un team di donne che hanno compiti di calcolo (nel 1961 non sono ancora affidati ai computer), e Mary Jackson, che in questi calcoli si trova particolarmente a suo agio e che ha un sogno nel cassetto: prendere una laurea in ingegneria e contribuire alle missioni spaziali del suo paese.
Le tre donne, tutte di colore, lavorano per la NASA al Langley Research Center di Hampton, nella Virginia segregazionista, e tutti i giorni affrontano un ambiente razzista che attribuisce al colore della pelle un ruolo fondamentale nel determinare intelligenza e perfino livello di conoscenza della quale le persone sono portatrici.
Il film è particolarmente interessante non solo perché tratta di donne di pelle nera che negli anni ’60 riescono a farsi largo fra pregiudizi e sessismo (aspetto che più di ogni altro ha attirato l’attenzione del pubblico), ma perché ci offre un interessante punto di osservazione di come le organizzazioni, anche quelle particolarmente vocate all’innovazione, possano trascurare aspetti progettuali essenziali: come, ad esempio, il fatto che per far funzionare una macchina innovativa quale un IBM 3270 è indispensabile disporre di persone preparate.
Oltre non vado con la trama: quando avrai guardato il trailer e alcune scene, ti parlerò degli aspetti a mio avviso più interessanti del film.
Moltissimi gli aspetti degni di nota.
È interessante notare come la NASA, organizzazione che si è data la missione di portare il primo uomo sulla luna, non avesse ben chiaro il fatto che l’adozione di una macchina di calcolo necessiti anche di persone capaci di programmarla e verificarne il corretto funzionamento; insomma, alla NASA avevano pensato di acquistare un’auto senza pensare che per guidarla sarebbe stato necessario almeno un autista patentato.
A salvare il calcolo delle traiettorie e forse l’intero programma spaziale, è Dorothy Vaughan la quale, preoccupata per il fatto che lei e le sue colleghe destinate al calcolo numerico possono da un momento all’altro restare senza lavoro, pensa bene di imparare a programmare segretamente in Fortran e a istruire le sue collaboratrici: una fortuna per la NASA, la quale può contare al momento giusto su ben 30 programmatrici che non aveva previsto e senza le quali il programma spaziale sarebbe naufragato, un esempio per quanti faticano a immaginarsi in un altro lavoro e lottano per il mantenimento dello status quo.
Sempre sul funzionamento organizzativo, interessante il ricorrente tema del “quasi-capo”; Dorothy di fatto coordina un gruppo piuttosto numeroso ma la sua posizione non è riconosciuta: perché è donna e perché la sua pelle è nera.
Ma anche oggi abbiamo persone che vivono situazioni simili, pur non essendo donne di colore.
Una critica?
Forse il tema razziale è un po’ “caricato”, nell’inutile intento di catturare l’interesse del pubblico: le vicende che hanno coinvolto le tre protagoniste sono talmente forti e coinvolgenti che una più attenta ricerca della realtà non avrebbe penalizzato la storia.
Anzi.
Un film da non perdere, soprattutto se non ti accontenti di guardare una pellicola in superficie.
Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons